28 gennaio 2025

Cannibalismo e racconti di viaggio

L'invenzione del diverso e la nascita di uno stereotipo

Il cannibalismo, spesso relegato ai margini della storia come un tabù antropologico, emerge nei racconti di viaggio e nella letteratura come una potente metafora delle dinamiche di potere, identità e dominio culturale. Da Cristoforo Colombo a Herman Melville, passando per le narrazioni della diaspora africana, l’atto di ‘mangiare l’altro’ assume un significato che va oltre il consumo fisico, divenendo strumento di costruzione e decostruzione dell’alterità. Questo tema attraversa secoli di storia e si declina in una molteplicità di contesti, diventando un dispositivo narrativo e politico per riflettere sulle relazioni umane, le gerarchie sociali e le strutture di potere.

L’invenzione del termine “canibali” da parte di Cristoforo Colombo nel 1492 segna l’inizio di un processo di esotizzazione e demonizzazione dell’Altro. Colombo, nei suoi resoconti di viaggio, descrive le popolazioni incontrate nel Nuovo Mondo utilizzando categorie che riflettono la mentalità europea del tempo, proiettando su di esse le paure e le fantasie dell’Occidente. Come sottolinea il critico culturale Tetsuya Motohashi, il linguaggio diventa uno strumento di conquista: nominare l’Altro significa definirlo, controllarlo e ridurlo a un’immagine funzionale al progetto coloniale. I “canibali”, inizialmente percepiti con una certa ambivalenza, vengono rapidamente cristallizzati in un simbolo di barbarie che giustifica la violenza imperialista. Tuttavia, questa costruzione discorsiva non è unilaterale: i popoli colonizzati, a loro volta, attribuiscono ai colonizzatori caratteristiche mostruose, creando una reciprocità di paure e proiezioni che riflette la complessità degli incontri interculturali. L’uso del cannibalismo come categoria morale ha radici profonde nella cultura occidentale, dove il concetto di consumo si estende oltre il cibo per includere la sfera economica, culturale e politica. Le narrazioni di viaggio, dai diari degli esploratori ai resoconti coloniali, utilizzano la metafora del cannibalismo per esplorare le paure dell’ignoto e le ansie legate alla perdita dell’identità culturale. La figura del “cannibale” diventa così uno specchio distorto attraverso cui l’Occidente guarda se stesso, proiettando le proprie contraddizioni e ambivalenze su popoli considerati “altri”. Questo processo di proiezione si manifesta non solo nelle rappresentazioni letterarie, ma anche nelle pratiche economiche e politiche che definiscono le relazioni tra le nazioni e le culture. Nel Interesting Narrative di Olaudah Equiano, pubblicato nel 1789, il cannibalismo assume una dimensione metaforica più sottile: l’Africa è rappresentata come un corpo consumato dall’Europa. Equiano, un ex schiavo africano che divenne una delle voci più influenti del movimento abolizionista britannico, descrive la sua esperienza personale di schiavitù e liberazione, offrendo una testimonianza diretta della brutalità del commercio transatlantico degli schiavi. Il critico Michael Wiley evidenzia come Equiano rappresenti l’Africa non solo come una geografia, ma come un organismo vivente, le cui “viscere” sono state saccheggiate dal colonialismo europeo. Questo processo di digestione culturale e fisica riflette la logica del consumismo emergente nella società europea del XVIII secolo, dove il corpo dell’altro diventa merce, oggetto di scambio e sfruttamento. Equiano stesso diventa testimone e narratore di questa dinamica cannibalica. Il suo racconto non è solo una denuncia delle atrocità della schiavitù, ma anche una riflessione sulla capacità del sistema coloniale di assimilare e trasformare le identità culturali. La sua autobiografia rivela come l’esperienza della schiavitù non si limiti al controllo fisico del corpo, ma coinvolga anche la mente e l’anima, in un processo di “digestione” culturale che mira a cancellare le radici e le memorie delle vittime. Tuttavia, il racconto di Equiano è anche un atto di resistenza, un tentativo di riappropriarsi della propria voce e di ricostruire un’identità frantumata dal trauma. Herman Melville, autore di opere come Moby Dick (1851) e Typee (1846), esplora il cannibalismo non solo come pratica esotica, ma come simbolo delle ossessioni e delle contraddizioni della modernità occidentale. Il mare diventa uno spazio liminale dove le certezze della civiltà si dissolvono e le pulsioni primitive emergono. Melville mette in discussione la distinzione tra “civilizzato” e “selvaggio”, suggerendo che il vero cannibalismo risiede nelle dinamiche di potere che regolano le società cosiddette avanzate. In Moby Dick, la caccia alla balena diventa una metafora della brama insaziabile di controllo e dominio dell’uomo sulla natura. Il capitano Ahab rappresenta l’archetipo dell’uomo moderno, ossessionato dal desiderio di sottomettere l’ignoto e di imporsi sul mondo attraverso la violenza. La balena bianca, a sua volta, simboleggia l’incomprensibile, l’irriducibile alterità che sfida l’arroganza umana. In questo contesto, il cannibalismo non è un atto isolato, ma un processo sistemico che riflette la logica del capitalismo e dell’imperialismo. In Typee, Melville offre una rappresentazione ambivalente delle culture “selvagge” del Pacifico, rifiutando le semplicistiche dicotomie tra barbarie e civiltà. Il protagonista del romanzo, un marinaio occidentale, scopre che la presunta “civiltà” degli europei è spesso più brutale e disumana delle società indigene che osserva. Melville sfida il lettore a riconsiderare le proprie convinzioni sulla superiorità culturale, mostrando come il vero “cannibalismo” possa manifestarsi nelle pratiche economiche, politiche e religiose dell’Occidente. Se nel contesto coloniale il cannibalismo è un’accusa rivolta all’Altro per legittimare la propria superiorità morale, in autori come Toni Morrison diventa uno strumento di resistenza. In Beloved, pubblicato nel 1987, Morrison esplora il trauma intergenerazionale della schiavitù attraverso la storia di Sethe, una donna fuggita dalla schiavitù che è tormentata dal fantasma della figlia morta. La figura di Beloved rappresenta il “fantasma” della memoria storica che divora e allo stesso tempo è divorato, in un ciclo di dolore e sopravvivenza. Il critico Alan Rice sottolinea come Morrison ribalti la retorica coloniale, trasformando la metafora del cannibalismo in una critica feroce al sistema che ha ridotto gli esseri umani a merci. Morrison utilizza la memoria come un atto di resistenza contro l’oblio imposto dal colonialismo e dalla schiavitù. Il cannibalismo, in questo contesto, diventa una metafora per la lotta contro l’assimilazione forzata e la cancellazione delle identità culturali. Attraverso la narrazione del dolore e della perdita, Morrison mostra come la memoria possa essere un’arma potente per ricostruire la dignità e l’umanità delle vittime del colonialismo. La sua scrittura sfida il lettore a confrontarsi con le eredità del passato e a riconoscere le cicatrici lasciate dal processo di “consumo” delle culture subalterne. Attraverso i secoli, il cannibalismo si è trasformato da tabù antropologico a metafora universale delle relazioni di potere. Che si tratti della colonizzazione delle Americhe, della schiavitù atlantica o delle ansie della modernità industriale, il tema del consumo dell’Altro continua a interrogare la nostra comprensione dell’umanità. In questo viaggio tra le pagine della storia e della letteratura, il cannibalismo si rivela non come un residuo di barbarie arcaica, ma come uno specchio in cui riflettiamo le nostre stesse contraddizioni. Esplorare il cannibalismo letterario significa, dunque, affrontare le paure più profonde della nostra civiltà: la paura dell’alterità, la paura della perdita di controllo e, infine, la paura di scoprire che il “cannibale” non è l’altro, ma noi stessi.

 

Il Ribaltamento del Cannibalismo: il caso del Capitano Viaud e la metafora dell’Occidente vorace

Il racconto del Capitano Viaud, tratto dallo Strano viaggio del Capitano Viaud, si distingue per la sua singolare inversione delle tradizionali narrazioni coloniali. Invece di raffigurare il cannibalismo come una pratica attribuita ai popoli colonizzati, la vicenda pone al centro un ufficiale europeo che, spinto da una fame disperata dopo oltre ottanta giorni di peregrinazione, è costretto a consumare il corpo di uno schiavo di colore. Questo episodio, lungi dall’essere un semplice aneddoto di sopravvivenza estrema, diventa una metafora potente e provocatoria della relazione tra il mondo occidentale e le sue colonie: il colonizzatore, simbolo della civiltà e del potere, si trova letteralmente e simbolicamente a dipendere da ciò che aveva ridotto a merce e sfruttato. In questa cruda rappresentazione, il racconto di Viaud obbliga a riflettere sulle dinamiche di dominio e sulle fragili fondamenta su cui si reggeva l’ideologia coloniale., rappresenta una singolare inversione di una delle metafore più persistenti e cariche di significato della storia occidentale: quella del cannibalismo come simbolo dell’alterità selvaggia. In questa narrazione, non è il colonizzato a essere il ‘cannibale’, ma il colonizzatore stesso, costretto dalle circostanze estreme della fame e della disperazione a divorare un corpo che rappresenta, nella sua nuda fisicità, l’oggetto del dominio coloniale: uno schiavo di colore. Il caso di Viaud non è un semplice aneddoto di sopravvivenza, ma un potente dispositivo narrativo che rovescia la retorica coloniale tradizionale. Se Cristoforo Colombo, come analizzato da Tetsuya Motohashi, ha ‘inventato’ il concetto di “canibali” per definire e demonizzare i popoli del Nuovo Mondo, giustificando così la conquista e l’oppressione, la vicenda di Viaud costringe l’Occidente a confrontarsi con la propria immagine riflessa in uno specchio distorto. Qui, il civilizzato si trasforma nel selvaggio, l’esploratore diventa predatore, e la vittima coloniale diventa l’ultima risorsa per la sopravvivenza del colonizzatore. La letteratura di viaggio europea del XVI e XVII secolo, come evidenziato nei testi di Motohashi e Rice, è intrisa di una retorica che costruisce l’alterità attraverso il linguaggio del cannibalismo. Il “mangiare l’altro” non è solo un atto fisico, ma un processo simbolico di appropriazione e controllo. Tuttavia, nel racconto di Viaud, questa dinamica si inverte: l’Europa, rappresentata dal capitano affamato, è costretta a consumare letteralmente ciò che aveva già consumato simbolicamente attraverso la schiavitù e il colonialismo. Alan Rice, nel suo studio sul discorso del cannibalismo nella letteratura del Black Atlantic, evidenzia come la rappresentazione del corpo nero sia spesso caricata di significati simbolici legati alla mercificazione e alla disumanizzazione. In questo contesto, l’atto del cannibalismo nel racconto di Viaud non è solo una metafora del consumo economico e culturale dei popoli colonizzati, ma diventa anche un punto di rottura narrativa. Rice sottolinea come il corpo dello schiavo diventi un luogo di confluenza tra la vittimizzazione e la resistenza: anche nella sua estrema oggettificazione, esso conserva un potere simbolico che sfida la logica del dominio. Il cannibalismo, quindi, si trasforma in un atto che non consuma soltanto la carne, ma rivela la vulnerabilità del progetto coloniale stesso, mostrando come la violenza esercitata sull’altro si ritorca infine contro chi la perpetra. L’atto di mangiare diventa una rappresentazione della violenza economica, culturale e politica esercitata dall’Occidente sui popoli subalterni. Tuttavia, quando il cannibalismo non è più un’accusa rivolta all’altro, ma una necessità imposta al dominatore stesso, si svela l’ipocrisia e la fragilità delle costruzioni ideologiche che sostengono il colonialismo. Michael Wiley, nel suo studio sull’opera Interesting Narrative di Olaudah Equiano, analizza come la metafora del consumo dell’Africa rifletta un processo di spoliazione culturale e materiale da parte dell’Europa. Nel contesto del racconto di Viaud, questa analisi assume una valenza ancora più incisiva: l’atto del cannibalismo non rappresenta solo una violenza simbolica, ma diventa un gesto concreto che riflette la dinamica inversa del colonialismo. L’Europa, non più solo agente di consumo simbolico, si ritrova letteralmente a dover dipendere fisicamente dal corpo di uno schiavo per sopravvivere. Questa drammatica inversione sottolinea la fragilità dell’impalcatura ideologica coloniale, mostrando come il dominio sull’altro possa trasformarsi in una dipendenza fatale e rovesciare le gerarchie del potere., descrive l’Africa come un corpo consumato dall’Europa, le cui “viscere” sono state saccheggiate dal colonialismo. Nel caso di Viaud, è come se questo processo si chiudesse in un cerchio perverso: l’Europa non solo consuma l’Africa in senso metaforico, ma si trova infine a dover consumare fisicamente il corpo di uno dei suoi rappresentanti più marginalizzati, uno schiavo nero, per sopravvivere. Questo atto estremo diventa una crudele parodia del progetto coloniale stesso, in cui il corpo dell’altro, ridotto a merce, diventa anche nutrimento. Questo ribaltamento ha una potente valenza simbolica. L’Occidente, che ha costruito la propria identità sul contrasto con l’Altro cannibale, si scopre vittima della stessa logica di consumo che ha imposto al resto del mondo. Il corpo dello schiavo mangiato da Viaud diventa così un memento mori della storia coloniale, un richiamo alla fragilità delle categorie di civiltà e barbarie.


Tabù: Il Cannibalismo come Estremo Atto di Sopravvivenza nelle Ande

Il racconto di Tabù, che narra la drammatica vicenda dei sopravvissuti al disastro aereo delle Ande del 1972, introduce una dimensione del cannibalismo profondamente diversa rispetto a quella esplorata nei contesti coloniali. In questa storia, il consumo dei corpi non è il risultato di dinamiche di potere, dominio o sfruttamento, bensì una scelta disperata, dettata dalla necessità assoluta di sopravvivere in condizioni estreme. Il cannibalismo, qui, non è l’atto dell’oppressore sul corpo del sottomesso, ma un gesto condiviso, un patto silenzioso tra eguali, dove la morte e la vita si intrecciano in modo inesorabile. L’aereo della squadra di rugby uruguaiana, precipitato tra le gelide vette delle Ande, lascia i sopravvissuti intrappolati in un paesaggio ostile, privi di risorse e circondati da neve e ghiaccio. Quando le scorte di cibo si esauriscono e ogni tentativo di trovare aiuto fallisce, la fame diventa un nemico implacabile. In questo contesto disumano, la decisione di nutrirsi dei corpi senza vita dei compagni deceduti non viene presa con leggerezza, ma come l’unica alternativa possibile alla morte certa. La scelta, discussa collettivamente e accettata come un gesto di rispetto verso i defunti, ribalta la concezione tradizionale del cannibalismo come atto di barbarie. In Tabù, il cannibalismo assume una valenza etica paradossale. Se da un lato si distingue nettamente dal caso del Capitano Viaud per il contesto e la motivazione che lo giustifica, dall’altro rivela inquietanti similitudini. In entrambe le vicende, l’atto di consumare carne umana nasce da una condizione di estremo bisogno e disperazione, dove la fame annulla progressivamente le barriere morali e sociali. Inoltre, in entrambi i casi, i corpi diventano non solo una risorsa fisica, ma un simbolo carico di significati etici e culturali: nel racconto di Viaud, il corpo dello schiavo rappresenta l’ultima risorsa del colonizzatore, mentre in Tabù i corpi dei compagni defunti incarnano un legame di solidarietà e memoria condivisa. Non è un crimine, ma un atto di sopravvivenza; non è un abuso, ma un sacrificio. I corpi consumati non sono ridotti a oggetti, ma rimangono legati alla memoria e all’identità delle persone che erano in vita. Questo legame affettivo trasforma l’atto in un rito doloroso, carico di significati che vanno oltre la mera necessità biologica. La carne, in questo caso, è un tramite tra la vita e la morte, una materia che conserva tracce di umanità e di relazioni affettive. Questo episodio solleva interrogativi profondi che riecheggiano le antiche questioni sul cannibalismo storico, come nel caso di Viaud. In entrambe le narrazioni, ci si confronta con la fragilità delle norme morali quando l’istinto di sopravvivenza prende il sopravvento. Sebbene il cannibalismo di Viaud sia intriso di una dimensione coloniale e di disuguaglianza di potere, e quello di Tabù avvenga tra pari in una situazione di mutuo accordo, entrambi i casi mettono in discussione la nostra comprensione di umanità e dignità. La tensione tra necessità biologica e tabù culturale emerge chiaramente in entrambe le vicende, suggerendo che il vero nucleo del problema non risiede nell’atto stesso, ma nella sua capacità di svelare le vulnerabilità e le contraddizioni delle nostre strutture etiche. Se nei contesti coloniali il “mangiare l’altro” era spesso carico di significati simbolici legati al potere e alla dominazione, in Tabù il cannibalismo si presenta come una realtà cruda e spoglia, priva di sovrastrutture ideologiche. Eppure, la reazione pubblica all’epoca del ritrovamento dei sopravvissuti fu segnata da un misto di orrore e fascinazione, segno che il tabù del cannibalismo resta radicato nel profondo della coscienza collettiva. Il caso delle Ande ci costringe a confrontarci con i limiti della nostra moralità. Cosa significa essere umani quando ogni norma sociale si dissolve di fronte all’istinto di sopravvivenza? In che misura il contesto giustifica l’atto? E, soprattutto, perché il cannibalismo continua a suscitare un tale turbamento, anche quando è privo di qualsiasi dimensione violenta o predatoria? In ultima analisi, Tabù ci mostra che il cannibalismo non appartiene a un “altrove” esotico o arcaico, ma può emergere come possibilità estrema anche nel cuore della modernità. Esso non è solo una pratica del passato, confinata alle “società primitive” o alle narrazioni coloniali, ma una potenziale realtà universale che mette a nudo la fragilità delle nostre certezze morali. In questo senso, il vero tabù non è l’atto in sé, ma la consapevolezza che, in certe condizioni, nessuno è completamente immune dalla possibilità di compierlo.

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